Andrea Nicolussi

 

1. Capitalismo e paradossi moderni. – 2. Il gioco d’azzardo, ultima risorsa dello stato e del mercato finanziario? – 3. Le regole giuridiche del gioco: un ordinamento schizofrenico? – 4. Gioco e scommessa nel codice civile tra obbligazione naturale contratti contra bonos mores. – 5. Contratto ed etica. – 6. Segue. Gioco e causa. – 7. Profili di protezione del giocatore, tra consumerismo e tutela costituzionale della salute e del risparmio: gioco e incapacità, gioco e forma.

1.

Tra i paradossi e le ambiguità della modernità vi è quello di avere alimentato, da un lato, uno sviluppo inedito del capitalismo fino quasi a trasformare il mondo in un mercato globale e, dall’altro, una insoddisfazione, che si è espressa in varie forme, verso il capitalismo stesso. Forse sono le due facce di una medaglia – il riduzionismo antropologico – che tende a rimuovere la complessità della condizione umana e delle dinamiche che la caratterizzano. Così, il prodotto più radicale di tale insoddisfazione anticapitalistica si è consumato in un tentativo di rifondazione della società che si è impigliato di fatto nell’illusione di una sorta di palingenesi per opera dello stato (sebbene marxianamente ritenuto destinato ad estinguersi insieme col diritto), sopravvalutandone le capacità di trasformazione della società.((Con riguardo al marxismo giuridico in Italia, si veda, L. Nivarra, La grande illusione, Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia, Torino 2015, il quale ricorda anche (45 ss.) il dibattito organizzato da Norberto Bobbio su il marxismo e lo stato.)) La scorciatoia utopistica ha semplicemente messo a confronto due forme di potere, stato e capitale, senza valorizzare altre fondamentali dimensioni dell’esperienza sociale. Tra le diverse aporie che ne sono derivate qui preme rilevare quella del tabù etico che questa prospettiva ha alimentato in un’epoca, come quella moderna, già per altri versi condizionata da questo tabù. Di qui un altro paradosso, dato dal fatto che in nome di un valore di giustizia, l’uguaglianza (anche sostanziale), si è potuto sterilizzare la dimensione etica generale alla quale pure quel valore appartiene. Certo, oggi si è ben lungi da un’organizzazione statalista della società, e anzi lo stato sembra spesso uno dei malati del nostro tempo, al cui capezzale peraltro non si esita, banche incluse, ad accorrere quando si abbisogna di un «lender of the last resort»;((L’espressione è di L. Nogler – U. Reifner, Lifetime Contracts, Rediscovering the Social Dimension of the Sales Contract Model, JFT, 2009, 438.)) ma il paesaggio culturale rimane ancora segnato dall’ostracizzazione del punto di vista etico, relegato nella privacy degli individui alla stregua dei loro hobbies, come una collezione di farfalle. Eppure l’esperienza umana, pur segnata dalla massificazione e da quella certa solitudine che affligge la condizione moderna o post-moderna o, come alcuno dice,((Cfr. R. Mordacci, La condizione neomoderna, Torino 2017.)) neomoderna, non può essere privata della dimensione dei rapporti intersoggettivi e degli affidamenti che tra persone si creano. Di questo plus il diritto tradizionalmente cerca di farsi carico e dovrebbe continuare a farlo, naturalmente in forma aggiornata e compatibile coi compiti del diritto che rimane opportunamente distinto dall’etica. Altrimenti si va a parare nell’opinione che le regole del traffico giuridico possano ridursi senza residui al modello delle regole del traffico stradale che forse è coerente col modello libertario, ma che appare povera e improbabile. Così, anche il tentativo di un ripensamento del diritto dei contratti in funzione dell’idea di riconoscere uno statuto particolare ai life time contracts, se privo di un sostegno di carattere etico, rischia di scivolare nella logica statalista che già in passato non ha funzionato.((Ho cercato di sviluppare il tema in A. Nicolussi, Etica del contratto e contratti di durata per l’esistenza della persona, in L. Nogler – U. Reifner, Life Time Contracts, The Hague 2014, 123 ss.)) Nelle pagine che seguono alcuni pensieri sono dedicati a uno dei paradossi recenti del capitalismo nella sua versione italiana, ossia la discesa in campo dello stato come imprenditore di giochi la quale, ironia della sorte, ha avuto un particolare impulso per opera di un governo di sinistra.((Si reputa che un punto di svolta sia stato la l. 248/2006 (c.d. Decreto Bersani).))

Il gioco d’azzardo, epitome del capitalismo selvaggio, da contratto guardato con sospetto dal codice civile anche per via dello sfruttamento di soggetti deboli e delle conseguenze sociali di tale sfruttamento, rischia così di divenire in generale un contratto pienamente lecito di cui il ruolo del biscazziere è assunto direttamente o indirettamente dallo stato. Del resto, in parallelo, l’art. 23, co. 5, del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.u.f.) sembra voler presidiare quei «giochi e scommesse» che si svolgono nel mondo della finanza e che, come è ben noto, un qualche ruolo hanno pure giocato nella recente gravissima crisi economica internazionale: «Nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell’art. 18, comma 5 lett. a), non si applica l’art. 1933 del codice civile». In altri termini, la legge riconosce la natura di giochi d’azzardo o scommesse di questi contratti, ma contemporaneamente esclude con riguardo ad essi l’applicazione della disciplina codicistica prevista per il gioco d’azzardo e la scommessa. E così è inopinatamente la legge stessa a fornire un sigillo ufficiale di conferma a quelle descrizioni del capitalismo contemporaneo alla stregua di un Kasinokapitalismus a cui si sono ricondotte icasticamente – come ricorda Udo Reifner((Die Geldgesellschaft, Aus der Finanzkrise lernen, Wiesbaden 2010, 171 ss. dove viene analizzato il gioco e il suo rapporto con la finanza.)) – le origini della crisi finanziaria.

2.

Invero, il codice civile italiano dedica tre articoli al gioco e alla scommessa dai quali si desume una certa diffidenza per l’azzardo. L’art. 1933 nega azione per il pagamento di un debito di gioco o di scommessa, anche se si tratta di gioco o di scommessa non proibiti. Il perdente, tuttavia, non può ripetere quanto abbia spontaneamente pagato dopo l’esito di un gioco o di una scommessa in cui non vi sia stata alcuna frode. La ripetizione è ammessa in ogni caso se il perdente è un incapace. L’art. 1934 mostra invece un atteggiamento più favorevole per le competizioni sportive facendo salvo però un controllo sulla eventuale eccessività della posta. Infine, l’art. 1935 prevede che le lotterie danno luogo ad azione in giudizio, qualora siano state legalmente autorizzate.

Come è noto, specialmente negli ultimi tempi le autorizzazioni legali hanno reso possibile una diffusione molto estesa dei giochi (giochi leciti) che, se da un lato generano entrate cospicue per le casse dello stato, dall’altro suscitano allarme sociale, a tal punto che la stessa parola ludopatia è entrata nel linguaggio comune. Sembra che addirittura gli introiti che immediatamente lo stato incassa da questa attività siano compensati se non superati dai costi economici e sociali delle conseguenze della ludopatia che essi alimentano. A proposito del termine ludopatia, come precisa l’Accademia della Crusca, esso non è un tecnicismo e potrebbe anche essere decettivo: nei testi specialistici di ambito medico-psichiatrico e psicologico compare solo come sinonimo di gioco d’azzardo patologico. Quest’ultimo, anche nella forma abbreviata dell’acronimo G.A.P., è il termine tecnico, specifico e raccomandato, che trova posto nelle classificazioni scientifiche: fanno fede le versioni italiane del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, curato dall’ American Psychiatric Association) a partire dalla terza edizione, e della decima revisione dell’ICD (International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità).

In effetti, gioco d’azzardo patologico traduce più precisamente il corrispettivo inglese pathological gambling. Certo, ludopatia ha il vantaggio di essere più breve, trattandosi di una parola sola, ma è meno preciso, dal momento che si perde il riferimento specifico alla componente dell’azzardo. Insomma, un conto è il gioco in senso ampio dell’Homo ludens di Huizinga e un conto è quello d’azzardo del giocatore di Dostoewsky.

Ora, fatta questa precisazione terminologica, il quadro giuridico di riferimento comprende anche, inter alia, il cd decreto Balduzzi, in realtà convertito nella legge n. 189/2012, che significativamente è intitolato disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute. In particolare, la ludopatia, intesa specificamente come gioco d’azzardo patologico, è stata inserita dal ministero della sanità nei livelli essenziali di assistenza sanitaria (i cosiddetti Lea). L’articolo 5 – intitolato Aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza con particolare riferimento alle persone affette da malattie croniche, da malattie rare, nonché da ludopatia – stabilisce, al comma 2, che con la medesima procedura di cui al comma 1 e nel rispetto degli equilibri programmati di finanza pubblica, si provvede ad aggiornare i livelli essenziali di assistenza con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (G.A.P.).

Inoltre, l’art. 7 prevede una serie di restrizioni all’attività pubblicitaria in tema di giochi e scommesse, nonché la promozione di interventi educativi. Infine, è rimarchevole la previsione, con riferimento ai contratti di gioco, di un obbligo di informare chi si accinge a giocare per quanto concerne il rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in danaro oltre alla probabilità di vincita. Tali informazioni – prevede la legge – devono figurare sulle schedine o sui tagliandi dei giochi.

Su ben altro versante, l’art. 23 T.U.F., co. 5, prescrive che «Nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell’articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l’articolo 1933 del codice civile». In altre parole, swaps futures, forward rate agreements e gli altri contratti finanziari ad altissimo rischio, pur configurando in definitiva delle scommesse, non dovrebbero essere trattati come tali, e quindi in linea di principio sono in grado di generare azione. Addirittura secondo la Corte di Appello di Milano «costituisce, del resto, un dato acquisito il fatto che l’art. 1933 c.c. abbia un ambito di applicazione del tutto residuale, perché concernente esclusivamente le ipotesi di scommessa c.d. tollerata dal legislatore, mentre non riguarda affatto le scommesse legalmente autorizzate che, come tali, debbono attribuire azione per il pagamento. L’art. 1933 non codifica una eccezione di scommessa, bensì una assai più circoscritta eccezione di scommessa meramente tollerata – la scommessa, cioè, tradizionalmente concepita come socialmente improduttiva – del tutto estranea all’area dei contratti di scommessa legalmente autorizzata, considerati dal legislatore come socialmente ed economicamente produttivi».((Corte appello Milano, 18 settembre 2013, n. 9487 in www.ilcaso.it.)) Con il che rifà capolino un’idea non inedita per cui le ragioni generali del mercato (o della finanza pubblica) possono offrire il sostegno causale a un contratto altrimenti mancante di interessi meritevoli di tutela facenti capo alle parti stesse del contratto.

3.

Ora, questi elementi che ho premesso concorrono a formare un quadro di coerenza incerta. Per un verso ne emerge un ordinamento incapace di esprimere un giudizio netto sulle attività negoziali meramente aleatorie che promettono un guadagno facile e sono pericolose per la salute, oltre che per i risparmi, con la conseguenza di una certa attenuazione di quella diffidenza, implicita nella disciplina codicistica, verso il gioco e la scommessa. Per altro verso, si percepisce la difficoltà di gestire i costi e i gravi pregiudizi derivanti dalla liberalizzazione di queste forme di contratto. Non solo si assiste a quella sorta di schizofrenia legislativa rappresentata dal decreto Balduzzi che, da una parte, implicitamente conferma la liceità dei numerosi giochi e scommesse autorizzati dallo stato e, dall’altra, detta regole restrittive sulla pubblicità, inserisce la ludopatia nei livelli essenziali di assistenza (LEA) e prescrive regole informative sui pericoli connessi a tali attività. Ma si registra altresì un atteggiamento di «pronto soccorso» giurisprudenziale per opera di alcuni magistrati che, evidentemente opinando in modo diverso dalla Corte di Appello di Milano prima citata, non si sono peritati di escogitare forme di tutela a favore dei malcapitati scommettitori, sia che si tratti di scommesse esplicite sia di scommesse nell’ambito dei mercati finanziari. Si pensi, a questo ultimo riguardo, alle sentenze sulla responsabilità degli intermediari finanziari e talora sulla nullità di contratti aventi ad oggetto certi prodotti finanziari molto rischiosi.((Cfr., Cass., sez. un., 19 dicembre 2007 nn. 26724 e 26725.)) Sono invece un esempio evidente di «pronto soccorso» ai giocatori le recenti sentenze dei giudici di pace di Salerno e zone limitrofe che con un certo coraggio hanno fatto prevalere i valori costituzionali dell’art. 32, tutela della salute, e dell’art. 47, tutela del risparmio, su una autonomia contrattuale che nella misura in cui sfida il principio di commutatività aspira all’assolutezza.((Cfr. Giudice di Pace di Salerno, 24 novembre 2016.)) Assolutezza, perché l’autonomia sembra qui esaurirsi nell’accordo delle parti senza rispetto per il requisito causale quale giustificazione dell’accordo in funzione della meritevolezza degli interessi che si vuole realizzare.((Senza contare la stranezza di certi giochi in cui il vincitore ottiene semplicemente la restituzione del prezzo o un nuovo biglietto, onde  il suo “premio” sarebbe semplicemente evitare il danno economico dell’acquisto della schedina.)) Il contratto aleatorio che non si giustifichi in forza di un qualche interesse che non sia il semplice gusto di correre un rischio elude il principio di giustizia commutativa che fin da Aristotele rappresenta uno dei fondamenti etici essenziali del contratto di scambio. Non a caso, il gioco d’azzardo è tradizionalmente un’attività guardata con sospetto, di cui talora si scoprono intersezioni con attività della criminalità organizzata, e che in ogni caso tende a pregiudicare fasce deboli della popolazione.

4.

In fondo, la scelta del nostro codice di mettere in apicibus alla sezione gioco e scommessa l’art. 1933 che nega azione in caso di gioco o scommessa, checché ne dica la Corte d’Appello di Milano, sta ad indicare un giudizio di principio che non può certo dirsi di pacifica meritevolezza di tutela degli interessi che tali contratti sono diretti a realizzare. Vero sembra piuttosto il contrario. E ciò dovrebbe valere, seppure in modo diversamente marcato, sia che si concordi con l’una o con l’altra delle due differenti spiegazioni della disciplina che consiste nel diniego di azione e nella soluti retentio, ossia nella irripetibilità di quanto eventualmente pagato. Certo, meno chiare risultano le ragioni del diniego di tutela nella tesi che sembra prevalente nella dottrina contemporanea, la quale si rifà a un’obbligazione naturale del debitore di gioco e quindi presuppone una valutazione della causa del contratto come una sorta di causa debole, sotto il profilo dell’azione, ma che diverrebbe stranamente una causa forte quale causa dell’eventuale attribuzione patrimoniale prestata in adempimento del debito di gioco: insomma invalido sarebbe il contratto, ma da esso deriverebbe addirittura un debito morale. Ora, tale stranezza è probabilmente il frutto di due elementi: da un lato, vi è una tendenza a una lettura abrogans della figura del contratto contra bonos mores, in conformità a una opzione piuttosto diffusa di politica del diritto di stampo libertario che è insofferente alla qualificazione di immoralità riguardante comportamenti di soggetti consenzienti. Di qui la tesi di un approccio normativo che si potrebbe descrivere come di neutralismo etico in materia contrattuale. Si pensi, a titolo d’esempio, alle frequenti proposte di valorizzazione del contratto di meretricio che in passato, non a caso, era accostato al contratto di gioco d’azzardo. Dall’altro lato, si aggiunge il rilievo del fatto che la disciplina dell’art. 1933 c.c. arieggia quella dell’obbligazione naturale prevista all’art. 2034 c.c. Di per sé inquadrare una fattispecie in base alla disciplina costituisce una inversione di metodo, un isteron proteron, ma evidentemente l’argomento è in grado di esercitare comunque una forza suggestiva.

Sennonché questa interpretazione neutralista sembra impigliarsi in una aporia che consiste nell’idea secondo cui il legislatore negherebbe validità al contratto, evidentemente per la scarsa coerenza con i valori dell’ordinamento, e in pari tempo giustificherebbe il pagamento del debito di gioco per ragioni morali. Per contro, la spiegazione dell’invalidità del gioco d’azzardo che si riferisce all’immoralità, sebbene evochi il tabù del contratto contra bonos mores, non scivola in questa aporia. Inoltre, quanto alla disciplina, la soluti retentio, come è noto, è una conseguenza pure del contratto immorale alla stregua dell’art. 2035 c.c. Del resto, l’organizzazione o l’agevolazione di giochi d’azzardo, che non siano quelli autorizzati dallo stato, costituisce reato ai sensi dell’art. 718 del codice penale. Certo, a differenza del contratto di meretricio che pure si trova al centro di una politica criminale volta a sanzionare l’organizzazione e l’agevolazione di questa attività, il gioco e la scommessa possono essere autorizzati dallo stato. Ma ciò non può significare che lo stato abbia il potere magico di rendere accettabile ciò che esso stesso reputa inaccettabile. L’autorizzazione da parte dello stato, se ha senso, dovrebbe, invece, essere funzionale al controllo e alla regolazione di questa attività, tale quantomeno da evitare il pregiudizio che altrimenti essa creerebbe.

5.

La pretesa di sopprimere ogni legame tra contratto e morale si rivela velleitaria e questa pretesa, parafrasando Jung, provoca la conseguenza di far emergere l’istanza etica attraverso altre forme spesso incontrollate. Il compito del diritto dovrebbe essere, invece, quello di incanalare queste istanze dentro procedure e vincoli che ne permettano il controllo e qualche possibilità di confronto razionale. Ad esempio, tradizionalmente nei sistemi di civil law, il contratto, come in generale i rapporti obbligatori, è assoggettato agli obblighi di buona fede e correttezza. La buona fede è una clausola generale, ossia una tecnica normativa particolare che conferisce al giudice il potere di concorrere nella formazione della fattispecie. Ed il giudice lo fa o lo dovrebbe fare riconoscendo, con riferimento al caso concreto da decidere, gli standards etici in base ai quali potrebbe sorgere un obbligo di protezione della controparte: ad esempio, un obbligo di informazione, un obbligo di custodia e uno obbligo di riservatezza o un altro ancora. Ma tale potere che la legge stessa conferisce al giudice, di far ricorso a valori metapositivi, implica una particolare cautela e un sostegno della scienza giuridica che ha il compito di vagliare razionalmente la casistica giurisprudenziale ed elaborare delle tipizzazioni in modo da garantire una certa prevedibilità della regola e impedire che lo strumento di innovazione si trasformi in un mezzo buono per ogni cosa, dando luogo a una giurisprudenza rapsodica e oracolare. Sempre rimanendo all’esempio della buona fede e degli obblighi di informazione che da essa si fanno scaturire, è noto lo scivolone della giurisprudenza che trasforma la regola di buona fede, riferita al comportamento delle parti di un rapporto giuridico, e quindi semmai fonte di responsabilità per la violazione di obblighi di comportamento ex fide bona, in un criterio per definire la validità di un contratto. In tal modo, però, è chiaro che la giurisprudenza riscrive le regole del diritto perché, sempre con riferimento a eventuali obblighi di informazione precontrattuali, essa abroga la disciplina del consenso contrattuale. Quest’ultima, infatti, è graduata in due sottocategorie, la nullità in caso di mancanza di accordo, e l’annullabilità in caso di vizi del consenso. Ora, al più l’omissione dell’obbligo di informazione può riverberarsi in vizio del consenso, ma quest’ultimo si darà a condizione che ne sussistano i requisiti previsti dalla legge. Sicché far derivare la nullità dalla violazione dell’obbligo ex fide bona significa imboccare una scorciatoia giuridicamente non prevista. Significa, in altre parole, trasformare la clausola di buona fede in una norma di equità, in un potere giudiziale di deroga e di creazione della norma ad hoc. Naturalmente, non si può escludere che queste deviazioni metodologiche possano talora anche portare a esiti condivisibili in termini di giustizia. Ma in un ordinamento di legge scritta recano la ferita della loro mancanza di legittimazione, e quindi sono di per sé pericolose, nella misura appunto in cui creano un diritto sganciato da regole prestabilite. Spesso, e così torniamo alla parafrasi junghiana, sono la prova che un ordinamento che pretenda di nascondere sotto il tappeto alcune istanze morali, poi si trova a doverle soddisfare in forme discontrollate con esiti generali di politica del diritto che, però, al di là del singolo caso, si rivelano distorsivi.

6.

Questo problema, peraltro, è di particolare rilevanza proprio nell’epoca contemporanea nella quale a dispetto dell’idea giuspositivistica radicale, ancora spesso ripetuta come un disco rotto, per cui diritto e morale sarebbero due vasi non comunicanti, il diritto in generale, e così anche il diritto civile, è messo in rapporto con quei principi o valori etici che sono stati istituzionalizzati nelle Costituzioni e più di recente nelle Carte fondative dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa.

Questo tema, come è noto, è stato affrontato soprattutto dalla dottrina tedesca del secondo dopoguerra che ha colto per prima la sfida del rapporto tra Costituzione e diritto privato in generale e costituzione e autonomia privata in particolare. In questa sede, non è possibile sintetizzare tale dibattito così ampio e approfondito, ma la lezione che ne deriva è abbastanza chiara. Il rapporto tra diritto e valori costituzionali, che conferma l’esigenza di non decapitare l’esperienza giuridica del riferimento a valori, non può tuttavia scivolare nella tirannia dei valori che è il veicolo principale della ideologizzazione del diritto. Il diritto rimane un discorso vincolato e tra i vincoli del diritto vi è anche la fattispecie che è propria delle norme giuridiche e che in linea generale manca invece ai principi contenuti nella Costituzione. Perciò questi principi non hanno una Drittwirkung, una efficacia diretta sul diritto privato e sulla autonomia contrattuale, sostituendosi alle regole previste, ma sono piuttosto un punto di riferimento nella interpretazione delle norme di diritto privato e semmai dei criteri per meglio intendere il senso di clausole generali, come la stessa buona fede o il buon costume, che rimandano a valori metagiuridici.((Cfr. L. Mengoni, Metodo e teoria giuridica, Scritti I (a cura di C. Castronovo – A. Albanese -A. Nicolussi), Milano 2011, 104 ss.))

In tal modo, si guadagna la prospettiva di un diritto aperto all’etica, intesa ovviamente, nel senso non confessionale, di un’etica costituzionale e più in generale di un’etica conforme alla tradizione giuridica, ma adeguatamente provvista degli strumenti di controllo giuridico-razionale dei valori. Questa apertura si conferma in modo essenziale nella stessa teoria del contratto. Anche qui infatti troviamo dei valori che ne innervano l’esperienza. Del resto, il contratto non è semplicemente un atto di autonomia, ma in quanto richiede l’efficacia giuridica, cioè la protezione del diritto, non può pretendere di essere protetto anche quando contrasta con i valori dell’ordinamento.

Inoltre, la stessa autonomia, che senz’altro è uno dei valori del contratto, è l’autonomia in senso relazionale, perché non si stipulano contratti da soli. Perciò il contratto è il terreno della libertà, ma in pari tempo del vincolo. Quest’ultimo non è tale solo in rapporto al principio del pacta sunt servanda, ma anche al principio dell’affidamento di cui la buona fede è espressione. Di quest’ultima il mio maestro ha fornito una bella spiegazione in termini di eteronomia non autoritaria, perché la buona fede non impone regole con la forza della semplice autorità della legge, ma semmai con l’autorevolezza dei principi morali che fondano la fiducia tra le persone.((C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, Riv. crit. dir. priv. 1986, 29.)) Tra soggetti moralmente inaffidabili non c’è nemmeno la possibilità del contratto.

Ma il contratto di scambio, come sottolinea Canaris,((Die Bedeutung der iustitia distributiva im deutschen Vertragsrecht, München 1997, 30.)) contiene anche un principio morale vicino allo stesso principio di dignità, che è rappresentato dalla giustizia commutativa. Come sosteneva Adam Smith, poter richiedere al panetterie il pane, al birraio la birra e al macellaio la carne, come controprestazioni di un prezzo, significa non dover chiedere questi beni come un favore. Ne deriva che la commutatività, anche se non implica adesione alla dottrina del prezzo giusto, rende eccezionale il contratto aleatorio in cui le parti rischiano di non ottenere nulla in cambio. Più precisamente, il principio di causalità del contratto esige che il contratto aleatorio sia diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela che possano giustificare la stessa aleatorietà. Così, il contratto di assicurazione non è privo di una giustificazione fornendo all’assicurato per il semplice fatto della stipula del contratto quella situazione di sicurezza su cui può contare almeno sul piano economico rispetto a eventuali futuri sinistri. Lo stesso dicasi per una rendita vitalizia che pur dipendente dall’evento della morte certo nell’an ma non nel quando, può contribuire al mantenimento del beneficiario.

Ben diversa è la situazione del gioco d’azzardo il cui oggetto sembra essere l’alea stessa,((Anche Reifner, Die Geldgesellschaft, cit., 174, rileva che nel contratto di gioco sono le parti stesse a creare il rischio.)) e per di più accompagnata da un grave squilibrio tra biscazziere e giocatore. Per soprammercato, la psicologia contemporanea ha mostrato, riconoscendo la condizione patologica del ludopatico, che una componente significativa di coloro che giocano sono in una condizione di particolare fragilità, ossia di dipendenza dal gioco, il che aggrava ulteriormente l’asimmetria tra le parti contrattuali. Ne deriva che proprio sul piano della valutazione di meritevolezza degli interessi realizzabili da tali contratti viene in considerazione la stessa tutela della salute che l’art. 32 Cost. qualifica diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. Ovviamente anche la salute psichica rientra a pieno titolo nel concetto di salute, e ciò senza bisogno di accogliere nozioni eccessivamente allargate di salute come quella dell’organizzazione mondiale della sanità che addirittura la descrive come stato di benessere dell’individuo. Perciò la stessa autorizzazione dei giochi d’azzardo dovrebbe essere vagliata in funzione del grado di sicurezza per la tutela della salute che l’organizzazione dei giochi è in grado di assicurare.

Tanto più che anche un altro principio costituzionale dovrebbe essere tenuto presente dallo stato nell’autorizzare se medesimo o un soggetto privato ad organizzare giochi d’azzardo, ossia il principio della tutela del risparmio previsto dall’art. 47 Cost.

7.

Ora, la costellazione di valori in cui si inserisce la questione dei contratti di gioco fornisce una direttiva metodologica nella trattazione delle questioni che li riguardano. Essa è giocoforza una direttiva di precauzione che suggerisce una lettura restrittiva e comunque funzionale alla protezione dei soggetti deboli coinvolti. Tale direttiva potrebbe autorizzare a spingersi anche al di là di quanto si offrirebbe in forma di tutela del consumatore, prendendo le mosse da questa categoria che è divenuta la chiave del tuziorismo contrattuale tra parti asimmetriche. Naturalmente con ciò non si vuole affermare che non abbia senso richiamare il consumatore come una delle categorie tipiche in cui il diritto contemporaneo ha declinato il principio di giustizia sostanziale nell’ambito dei contratti. Infatti, la disciplina dei contratti con il consumatore è proprio uno dei momenti di emersione dell’inadeguatezza del principio di fungibilità delle posizioni contrattuali quando si ravvisi una significativa asimmetria di posizioni tra parti. E l’inefficacia delle clausole abusive, che ora viene qualificata ex lege nullità, è appunto una forma di protezione (ora nullità di protezione) che ha propriamente lo scopo di rivolgere la propria tutela al soggetto debole del contratto. Ma nei contratti col consumatore in generale si offrono beni o servizi che, quando pure abbiamo carattere voluttuario, non escludono il principio di commutatività, mentre il giocatore – se ci si concede il gioco di parole – non consuma nient’altro che la propria salute, se si ammala, e i propri risparmi in ogni caso. In definitiva, se il giocatore non è né un consumatore né tanto meno un risparmiatore, nondimeno quando contratta con un’organizzazione di impresa che, sfruttandone il gusto per l’azzardo, scambia con lui l’improbabile (la vittoria del giocatore) col probabile (la vittoria del biscazziere) merita una tutela che non dovrebbe essere inferiore a quella prevista per quelle categorie di contraenti deboli.

La direttiva di precauzione verso i giochi pare a questo punto che possa essere utilizzata in almeno un paio di direzioni.

La prima dovrebbe consentire di valorizzare il riferimento all’incapacità contenuto nell’art. 1933 c.c. ove si prevede che la ripetizione di quanto pagato, quale debito di gioco, è ammessa in ogni caso se il perdente è un incapace. Ora, questa norma, se presa soltanto alla lettera, potrebbe rivelarsi un inutile doppione non solo perché il pagamento dev’essere spontaneo e già questo requisito è inficiato dall’incapacità, ma anche perché in ogni caso dovrebbe valere il principio generale dell’art. 2034 c.c. Perciò il riferimento all’incapacità potrebbe essere valorizzato in chiave evolutiva equiparando la persona soggetta a ludopatia all’incapace, il ludopatico essendo infatti un soggetto che non ha sufficienti freni inibitori relativamente al gioco.((L’idea di una espansione del concetto di incapacità ai fini di tutela del contraente debole non è nuova. Cfr., ad esempio, M.W. Hesselink, Capacity and capability in European Contract Law, ACLE, 2005, 1 ss.))

Di qui si potrebbe pensare a una possibilità di ripetizione di quanto prestato non solo nel caso di giochi non autorizzati, ma anche di quelli autorizzati ove si provi che a stipulare il contratto sia stato un ludopatico. Forse anche chi organizza tali giochi dovrebbe correre almeno il rischio dell’invalidità del contratto per ludopatia della controparte, rischio peraltro che l’organizzatore potrebbe in qualche modo controllare.

In secondo luogo, la direttiva di precauzione ci dovrebbe aiutare anche nella valutazione della giurisprudenza salernitana, se così si può chiamare, che ha ritenuto nulli per violazione di norma imperativa i contratti posti in essere senza la formula informativa prevista dall’art. 7 del decreto Balduzzi. Invero, la nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa, così come declinata da queste sentenze, non sembra argomentazione appropriata. L’obbligo di informazione, sebbene previsto qui da una legge e non semplicemente ricavato dal principio di buona fede, non è in grado di valere come parametro di riferimento della contrarietà del contratto a norma imperativa. Ciò che deve essere contrario alla norma imperativa è il contratto, ossia il suo contenuto, non la condotta tenuta da una delle parti. Altrimenti, la c.d. nullità virtuale del contratto si trasforma in una sorta di clausola generale con cui il giudice, volta per volta, stabilisce lui stesso il parametro in base al quale il contratto è nullo.((Cfr. A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli 2003, 105 ss.))

Piuttosto, a me pare che vi sia spazio per una valutazione diversa concernente la forma dei contratti di partecipazione ai giochi d’azzardo nell’ambito della quale potrebbe farsi rientrare la scheda che viene consegnata al compratore che potrebbe integrare un profilo di realità nella conclusione del contratto. Si potrebbe inquadrare il contratto come avente una connotazione reale e l’onere della forma potrebbe riguardare alcuni elementi del contratto compresa l’informazione prevista dal decreto Balduzzi, onde la mancanza di essa sulla scheda potrebbe essere vista come ragione di nullità del contratto per difetto di forma. La forma, come dice uno slogan consumeristico, è anche la forma che informa, sicché in questo caso la nullità del contratto non sarebbe dovuta alla condotta scorretta dell’organizzatore ut sic, ma alla violazione del requisito di forma in cui l’obbligo doveva essere adempiuto. In altre parole, la prescrizione dell’informazione non è limitata, in quest’ottica, al mero comportamento della parte, ma attiene altresì a un elemento del contratto, la sua forma, per cui, così ripensato il requisito previsto dalla legge, è il contratto stesso a violare la legge per la mancanza del requisito formale richiesto.

La soluzione proposta, che fa ricorso al salvagente irtiano della forma,((Cfr. N. Irti, Il salvagente della forma, 2 ed., Bari-Roma 2007.)) è tutt’altro che indiscutibile e sicuramente viene sollecitata dall’insieme di valori costituzionali che entrano in “gioco” in questi casi ( e che per vero in un’ottica preventiva dovrebbero contare di più già in sede di autorizzazione amministrativa): la tutela della salute e la tutela del risparmio, in primo luogo. Ma essa recupera al contratto, sotto il profilo della forma richiesta, la questione della sua validità.

Certo, se l’immoralità del contratto d’azzardo viene ad emergere vuoi per riconoscerne una indefettibile mancanza di causa, vuoi per incoraggiare un’estensione del concetto di incapacità, vuoi per suggerire una regola formale sul contratto, si preparano tempi rischiosi per chi fa dei giochi d’azzardo un’attività di impresa, ma – come dice Dostoewsky – un vero giocatore sa bene cosa vogliono dire certi scherzi del caso. E a fortiori, quando si tratta di uno stato che, anziché redistribuire ricchezza con una imposizione fiscale più equa, reputa che pecunia non olet anche a scapito di soggetti deboli.

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